Il libro si snoda attorno all’opera di Emilio Betti e Aurelio Candian, compagni di studi a Parma agli inizi del Novecento e poi per sessanta anni in rapporti di amicizia e collaborazione.
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Distanti per le idee politiche (apertamente fascista, "processato" dai partigiani e poi sottoposto al procedimento di epurazione, il primo; di spirito azionista, avverso al regime, rinchiuso in carcere dalle SS e poi costretto alla clandestinità durante la Resistenza, l’altro), i due giuristi avevano però molti tratti in comune: discendenti dallo stesso maestro, il grande romanista-civilista Gino Segrè (cui si aggiunse, per Candian, la guida di Angelo Sraffa), condividevano la visione storicista, il rigore morale e la convinzione dell’importanza della missione del giurista, ritenuta vitale ai fini del governo della società di massa grazie al possesso di quella salda dogmatica che sola poteva rendere elastica e moderna la legislazione. Dotati di robusta personalità, attivissimi sulla cattedra e nel foro, protagonisti di tante discussioni (anche polemiche) con la parte più viva della giurisprudenza europea, Betti e Candian erano intellettuali a tutto tondo. Dall’angolo di osservazione della loro opera può scorgersi l’azione di un’intera generazione di giuristi – quella successiva a Scialoja, nel trentennio compreso tra il tramonto dell’età giolittiana e l’avvio della ricostruzione – e i problemi che essa affrontò: la crisi irreversibile del modello ordinamentale ottocentesco, il nodo del rapporto tra diritto e politica, il problema delle fonti e dell’interpretazione, il ruolo del giurista, la concezione della Costituzione.
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