L'idea di un volume sulla diagnosi in psicologia clinica nasce dall'esigenza di chiarire, attraverso un preciso linguaggio di riferimento, un ambito importante di quella che con Wittgenstein potremmo chiamare la "mitologia" specifica della nostra identità.
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Negli ultimi anni, infatti, il linguaggio diagnostico proprio della psicologia è andato indebolendosi nel confronto con discipline come la psichiatria e le neuroscienze, anche se la diagnosi rientra nelle competenze specifiche dello psicologo, come chiarito dall'articolo 1 della legge 56/89 che ha istituito la nostra professione. È indubbio che il linguaggio e le classificazioni psichiatriche abbiano facilitato la comunicazione tra professionisti di formazione e provenienza diversa, così come è vero che l'assenza di sistemi e strumenti diagnostici condivisi e capaci di parlare il linguaggio della psicologia ha ridotto la possibilità di approfondire le nostre conoscenze e competenze, delegando al singolo psicologo, alla sua formazione e alle sue opzioni teoriche, il compito di "dare un senso alla diagnosi" (Barron, 1998) e di comunicare con il paziente stesso. Nel frattempo, le categorie psichiatriche sono entrate nel nostro gergo quotidiano, tanto che gli stessi pazienti le adottano per indicare i problemi di cui soffrono, spesso al prezzo di una buona dose di confusione e dì molte semplificazioni. È sempre più frequente che un paziente sì rivolga a uno psicologo dicendogli di essere "depresso" o "ansioso" o di soffrire di "attacchi di panico" o di essere un "tossicodipendente". Ma qual è il vero significato di questi termini? Quale il vissuto soggettivo della persona che li usa? Quali esperienze hanno determinato quel vissuto? Quali sono gli affetti, i pensieri, le motivazioni e i comportamenti che ci vengono comunicati con questa terminologia?