L'appartenenza religiosa può costituire la causa (in senso giuridico) del compimento di atti di liberalità. Il collegamento tra l'agire a fini di liberalità o non lucrativi e l'interesse religioso segna i confini di questa indagine.
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Il compimento di questo tipo di atti di liberalità si caratterizza principalmente perché gratifica chi li effettua, realizza un suo interesse poiché l'autore li compie in ossequio alla propria esigenza di sentirsi parte di un gruppo di "credenti". Più esplicitamente, è proprio il "dare per essere presenti con la propria attività", per partecipare, per contribuire alla costruzione di una realtà sociale specchio dei propri valori religiosi, che specifica il nucleo di senso più autentico di quel trasferimento economico, appunto un dare etico. E oggi opportuno rileggere il rapporto tra spirito di liberalità e interesse religioso, sottolineando l'incidenza del secondo sul primo: considerando, cioè, l'interesse religioso non come un fine esterno, ma come un tratto che connota dall'interno - potrebbe dirsi, nella sua essenza l'agire per liberalità ed il suo conseguente inquadramento legislativo e costituzionale. Al centro della ricerca che qui si presenta si è voluta porre l'analisi del fenomeno definito con la formula "liberalità non donative". Essa nasce dalla necessità di misurarne e decifrarne, attraverso una griglia giuridico-positiva, le peculiarità dal punto di vista etico-sociale e l'ambigua, per molti versi sfuggente, rilevanza normativa.
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VAN00@Biblioteca del Dipartimento di Giurisprudenza