Questo libro può essere considerato la prima trattazione organica del tema della poesia figurata in tutte le sue molteplici accezioni, che vanno dai technopaegnia alessandrini ai calligrammi di Apollinaire, poi ripresi e sviluppati dalle avanguardie.
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Mentre gli studi precedenti si erano spesso appagati di un’analisi innanzitutto visiva di questa forma di poesia, Pozzi mira a risalire all’origine di quell’impulso formale, qui individuata nella tensione dell’espressione linguistica quando essa si sottomette a un regime che le è estraneo, quello dell’espressione iconica. Questa tensione non è presente solo negli artifici più noti – quali il calligramma, l’anagramma e l’acrostico –, ma in numerosi altri testi dove il valore iconico è per così dire occultato. E il disvelamento di queste immagini segrete viene qui condotto da Pozzi con appassionante perizia. Alla prospettiva sincronica, che tende a illuminare le sottili questioni formali poste da questa specie della poesia, si accompagna – nella seconda parte dell’opera – una storia della poesia figurata in Italia dal Medioevo in avanti: vi si vedranno sfilare i grandi nomi di Boccaccio, Boiardo, Folengo, Colonna e una folla di autori sconosciuti, soprattutto cinquecenteschi e secenteschi, che spingono la poesia figurata a estremi di virtuosismo e di eleganza. Molti di questi materiali vengono qui sottratti per la prima volta al sonno delle biblioteche, portando alla luce immagini delicate, sorprendenti. Un senso di vertigine è la cifra di queste invenzioni, oscillanti fra l’esaltazione mistica e la perversione contaminatrice. La scrittura, ribellandosi alla sua funzione di rappresentanza linguistica, tende a diventare, da ancella della lingua, sua arrogante despota: «una storia della scrittura come regno dell’eccesso vedrebbe figurare il nostro genere fra i più inquietanti», annota Pozzi. L’evoluzione formale della poesia figurata si intreccia così a quel radicale spostamento dell’asse intellettuale che si manifesta all’inizio dell’età moderna. I carmi figurati, che negli esempi medievali si aggiungevano al Liber mundi come un’ulteriore pagina di lode cosmica, tendono sempre più a diventare una celebrazione del disordine e del sovvertimento, segnali dell’assenza della divinità dal mondo, annuncio di un irredimibile caos.
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